Era una giornata limpida al Circeo. Il mare piatto come vetro, il cielo terso, la sabbia calda sotto i piedi. Camminavo sul bagnasciuga con passo lento, lasciando che le onde sfiorassero appena la pelle. Lo smalto rosso vivo sulle unghie brillava come un segnale, un dettaglio che non passava inosservato.
Sentivo da un po’ uno sguardo addosso. Di quelli che non si nascondono, che restano lì, fissi. Poi, finalmente, si è avvicinato.
Avrà avuto poco più di vent’anni. Il classico bagnino di inizio stagione: pelle dorata, aria insicura, voce quasi rotta.
«Scusa… ma sei tu? Sei Dalia Diamante, vero?»
Ho abbassato appena gli occhiali da sole. L’ho guardato. Non serviva rispondere.
«Ti ho riconosciuta subito… le storie, le foto. Sei proprio tu.»
Sotto l’ombrellone, il mio compagno sorrideva. Sapeva bene da ore che quel ragazzo non faceva che guardarmi. Poco prima mi aveva detto:
«Quel bagnino ha perso la bussola. Gli occhi non gli obbediscono più.»
Ma non aveva aggiunto altro. E nemmeno io.
Mi piace osservare come certi uomini, davanti a una donna che cammina sicura, improvvisamente si confondono. Si perdono. Fingono di avere il controllo, ma ne vengono spogliati da un gesto semplice, da un dettaglio.
Quella sera, mentre il sole cominciava a calare e la spiaggia si svuotava, è tornato da me. Stavolta con una timidezza più fragile… ma decisa.
«Non vorrei disturbare. Ma… oggi ho avuto la giornata più strana della mia vita. Non riuscivo a guardare altro. È come se tutto il resto fosse scomparso. Non so nemmeno perché ti sto dicendo queste cose… ma sentivo il bisogno di dirtelo.»
Parlava in modo rispettoso, ma l’intensità negli occhi era innegabile.
Mi sono seduta sul lettino. Non ho risposto. Mi sono limitata a osservarlo. Lui si è abbassato sulle ginocchia, lentamente. Come chi non sa bene cosa stia facendo, ma è certo che non potrà dimenticarlo.
Ha sfiorato la caviglia con lo sguardo. Lento. Poi ha abbassato la testa. Non per toccare. Solo per restare vicino. Immobile.
Io guardavo l’orizzonte. Il mare era fermo. Il vento assente. E per un attimo, anche il tempo sembrava rallentato.
Ho voltato lo sguardo verso il mio uomo. Non diceva nulla, ma il linguaggio del corpo era eloquente. Non c’era rabbia. Solo una silenziosa complicità. Un’intesa che non ha bisogno di parole.
Lì, tra il rumore delle onde e il silenzio dei gesti, ho capito che non era questione di bellezza. Non era neanche attrazione.
Era qualcosa di più sottile: il potere dell’eleganza, del non detto, di ciò che non si può chiedere, ma si sogna.
Non ho detto grazie. Non ho detto nulla.
Perché a volte, il rispetto più profondo… è muto.